Gli ultimi due anni sono stati una sorta di continuo esperimento dal vivo a proposito di quanto la motivazione e il benessere del personale in azienda possano incidere sulle performance lavorative. Chiunque di noi sa bene come, durante questo periodo, abbiano pesato le differenti situazioni personali sull’organizzazione e sulla produttività di ogni singolo elemento della catena, tanto che proprio su questo si stanno focalizzando sia le strategie organizzative sia le analisi riguardanti il fenomeno dell’abbandono del posto di lavoro. Quella Great Resignation che ormai ogni mese fa parlare di sé e suonare nuovi campanelli d’allarme.
Più le persone all’interno dell’organizzazione lavorano in condizioni di benessere, più benefici ha l’azienda, come tra l’altro hanno dimostrato svariate volte i dati relativi all’aumento della produttività durante i periodi di smart working in piena emergenza pandemica. Dipendenti più felici hanno maggiori probabilità di emergere come leader, ottenere punteggi più alti nelle valutazioni delle prestazioni e tendono a essere migliori nel lavoro di squadra. Nello stesso tempo, hanno tassi più bassi di assenteismo, sono altamente motivati e meno propensi a lasciare un’azienda. Tutti elementi che influenzano in modo significativo i profitti.
Ma quanto conta in tutto questo discorso la predisposizione personale alla positività? Una ricerca condotta dal professor Paul B. Lester, recentemente pubblicata sul Journal of Happiness Studies e riguardante circa 1 milione di componenti dell’esercito americano, seguiti per cinque anni, ha rilevato come le performance di coloro che inizialmente si erano definiti come “ottimisti” fossero migliori di ben quattro volte rispetto a quelle di quanti si fossero descritti come tendenzialmente infelici.
Un divario che è rimasto inalterato anche tenendo conto di status (ufficiali contro soldati arruolati), sesso, razza, istruzione e altre caratteristiche demografiche. E se state pensando che una ricerca condotta su un campione di questo tipo non possa essere gran che rappresentativa per il mondo del business, contate che l’esercito americano è il maggior datore di lavoro del mondo, e che al suo interno sono presenti oltre 190 categorie di lavoro distinte: dall’impiegato al pilota, dal cuoco al comandante.
Come appare ovvio, felicità e ottimismo sono in parte collegati a fattori ereditari e genetici, in parte alle esperienze che si fanno nella vita. E proprio relativamente a queste ultime si gioca una partita importante, per ciò che riguarda i professionisti HR in particolare. I dati del “World Happiness Report 2021” hanno infatti rilevato che all’interno del posto di lavoro, la felicità prima della pandemia era in gran parte dovuta al senso di appartenenza dei dipendenti all’interno di un’organizzazione e tra i colleghi, alla flessibilità offerta ai lavoratori, all’inclusività e al senso di uno scopo per il loro lavoro (in ordine decrescente di importanza). Durante la pandemia avere un manager collaborativo e solidale è diventato il principale indicatore della felicità sul luogo di lavoro. Più dei soldi, che seppur importanti confermano quel detto che recita: “non fanno la felicità”.
Tutto ciò indica come leader e organizzazioni debbano mettersi all’opera per far sì che il posto di lavoro favorisca il benessere e la positività delle persone che lo vivono e che ci lavorano. Inizialmente, misurando i livelli di benessere attuali della propria forza lavoro e favorendo il più possibile l’ingresso nel team di persone che dimostrino attitudini positive. Senza affidarsi alle impressioni personali, inevitabilmente destinate a squilibri soggettivi, ma servendosi dei mezzi tecnologici e dei professionisti adatti allo scopo.
Questo, in primo luogo darà modo di valutare le performance organizzative attuali, e insieme aumenterà il numero di persone creative e motivate nella squadra. È fondamentale infatti tenere presente che sia la felicità che il suo contrario sono contagiose, per cui creare un ambiente dove si respira benessere trasmetterà positività anche agli elementi meno propensi. Così come al contrario troppi elementi negativi potrebbero creare ambienti tossici e poco piacevoli dove lavorare.
Infine – e questo è fattore forse più importante – il leader deve fungere da esempio. Incarnazione della cultura dell’organizzazione, e insieme veicolo dei messaggi che andranno a raggiungere la platea dei lavoratori, proprio il leader deve essere il modello del benessere aziendale. Se la felicità è contagiosa orizzontalmente per i dipendenti, può esserlo anche verticalmente, dal professionista fino al singolo lavoratore, purché i leader stessi imparino a promuovere messaggi strategici positivi, dare il giusto feedback e partecipare alla formazione sull’argomento insieme ai dipendenti.
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