Uno degli aspetti che più ci avevano incuriosito, sentendo montare la discussione intorno al nuovo concetto virale del “Quite Quitting”, era la diffusa tendenza a considerare e bollare il fenomeno come l’espressione di una mancanza di voglia di fare da parte del lavoratore – col risultato di addossare dunque su quest’ultimo la gran parte delle responsabilità – piuttosto che come un chiaro difetto in termini di leadership o quantomeno come il concorso di più cause concomitanti.
Ancora una volta, a nostro parere, si affermava invece la centralità della corretta pianificazione di una formazione costante e continua, di piani di incentivazione, di investimenti nella comunicazione all’interno delle strategie organizzative di gestione delle risorse umane (per approfondire: QUI). Un discorso che vale in tutto e per tutto anche per il nuovo argomento virale per quanto riguarda il mondo del lavoro, venuto alla ribalta sempre dai social network proprio in quest’ultimo periodo: il “Quite Firing”.
Se a questo punto vi sentite vagamente disorientati, sappiate che l’espressione in questione dà un nome a un fenomeno che invece è conosciuto ed è stato certamente sperimentato da una buona percentuale di lavoratori. Come ha sottolineato Bonnie Dilber, Recruiting Manager presso Zapier, in un post che è diventato popolarissimo su LinkedIn, si parla di “Quite Firing” (che potremmo tradurre in italiano con “licenziamento a fuoco lento”) quando al lavoratore non vengono riconosciuti né feedback né lodi per il suo lavoro, quando gli incontri faccia a faccia con il manager vengono cancellati senza preavviso, quando gli aumenti di stipendio sono in percentuale minori rispetto a quelli di altri colleghi, quando non si ha accesso a progetti interessanti o che offrono opportunità, quando non si viene coinvolti in un piano di sviluppo della propria carriera.
Quando, insomma, il lavoratore si sente come un fantasma all’interno dell’organizzazione e non gli rimane altro da fare che decidere di dimettersi.
Sempre sulla piattaforma LinkedIn l’argomento è stato affrontato anche con un sondaggio, incentrato su quanti l’avessero vissuto in prima o in terza persona. Il sondaggio, che ha raccolto oltre 20mila voti, riporta come nel 35% dei casi il fenomeno sia stato vissuto sulla propria pelle dal lavoratore, mentre il 48% del campione conferma di essere stato testimone di episodi di “Quiet Firing” sul posto di lavoro. Più di 8 lavoratori su 10, insomma, sanno bene di cosa si stia parlando.
Tutto ciò può fare il bene dell’organizzazione? Per chiunque creda nei riflessi positivi, a livello organizzativo, produttivo e di fatturato, dell’investimento su una cultura aziendale improntata al benessere e al coinvolgimento, appare un evidente controsenso. E spetta proprio ai professionisti HR e ai manager in prima linea il compito innanzitutto di interrogarsi sulla propria condotta personale, e quindi di adottare le giuste contromisure rispetto alla possibilità che in azienda possano verificarsi tali fenomeni.
Comunicazione e feedback regolari ricoprono da questo punto di vista un ruolo centrale, per far sì che ogni dipendente possa avere ben chiari quali sono i suoi punti di forza e di debolezza, e sia incoraggiato a costruire un rapporto basato su lealtà e onestà. Il professionista HR dovrebbe infatti in ogni modo spingere verso la trasparenza dei rapporti tra dirigenza e collaboratori, intercettando situazioni di malcontento prima che si manifestino in maniera dilagante e difficilmente arrestabile nella cultura di un’azienda.
In fondo, che si tratti di Quite Quitting o di Quite Firing, quello che a nostro parere deve essere valutato in una nuova maniera è proprio il sistema di relazioni tra datori di lavoro e dipendenti, senza voltare la faccia davanti alle nuove esigenze che stanno emergendo e senza avere timori davanti a un riassetto degli equilibri. Mai come in questa fase, il ruolo dei professionisti HR appare cruciale.
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