Il 2020 è stato – per cause tutt’altro che pianificate – l’anno del lavoro da remoto, anche per il nostro paese. Stando ai dati del Politecnico di Milano, la crescita del numero dei lavoratori a distanza rispetto all’anno precedente è stata pari ad oltre dieci volte. Per quanto non manchino le polemiche sollevate da quanti si dichiarano fermamente contrari a questo tipo di evoluzione della prestazione lavorativa, la tendenza in atto è quella della cosiddetta ibridazione, secondo un modello fatto di alternanza tra presenza e distanza, che da più parti viene indicato come predominante anche per il prossimo futuro.
Tra voci e proclami assolutamente divergenti, che vanno da “Il lavoro dalle 9 alle 18 non esiste più!” fino a “Da lunedì tutti in presenza senza se e senza ma!”, rimane da analizzare con sufficiente lucidità un modello che presenta innegabili punti a suo favore, così come solleva alcune criticità da affrontare. Se da un lato è infatti evidente come, dal punto di vista dell’organizzazione del tempo e della riduzione dello stress legato al dover raggiungere quotidianamente il posto di lavoro, i benefici per il lavoratore siano tangibili, dall’altro non si possono non sottolineare i rischi connessi al possibile isolamento di alcuni collaboratori all’interno dell’azienda, con ripercussioni che potrebbero toccare così la sfera personale come quella organizzativa. Entrambi gli aspetti, i pro e i contro, sono destinati ad avere riflessi sulla produttività.
Anche a proposito della produttività da remoto le visioni sono spesso differenti: se per alcuni prevalgono gli effetti negativi dell’accresciuta difficoltà di collaborazione, per altri la maggiore libertà organizzativa e un maggiore livello di benessere personale si riflettono in benefici innegabili sul fronte produttivo, così come hanno dimostrato alcuni studi. Seppure entrambe le posizioni si basino su un fondo di verità, un passo avanti nella discussione può essere rappresentato proprio dall’aggiornamento al presente di ciò che si intende quando si parla di “produttività”.
Se tale concetto si vuole ridurre al freddo conteggio delle e-mail inviate dal singolo dipendente, o alla misurazione del tempo-lavoro certificato da un cartellino timbrato, si sta con ogni probabilità prendendo in esame solo una parte della questione, che potrebbe restituire indicazioni fuorvianti. Un processo più strutturato prevede certamente una cura particolare circa la qualità e la puntualità dei dati raccolti, l’analisi approfondita degli stessi al fine di immaginare soluzioni ideali in base alle necessità emerse, nonché un continuo procedimento di revisione che tenga in conto la volatilità delle situazioni e i continui cambiamenti in atto. Un po’ come passare dalla fotografia alla trasmissione in diretta video, tanto per intendersi.
Nel fare riferimento al concetto di produttività, per il leader dell’ambiente lavorativo dell’era ibrida, emerge l’importanza di considerare indicatori come il benessere del personale, le possibilità di collaborazione tra gli elementi del team e la necessità di stimolare un ambiente innovativo. Inevitabilmente tutto ciò farà parte dell’impostazione di strategie sostenibili a lungo termine e delle modalità nelle quali tali strategie saranno messe in atto.
Trovando un buon equilibrio in ognuno di questi singoli aspetti, e nella loro combinazione, la modalità ibrida di lavoro potrà essere davvero più performante di quella tradizionale. Non sembra infatti essere più il momento per cristallizzarsi in schemi predefiniti, quanto piuttosto quello di accettare il processo di cambiamento continuo in atto, modellando l’organizzazione secondo esigenze reali emerse da un’analisi meticolosa e senza preconcetti. Capirlo per tempo fornirà un vantaggio rispetto alla concorrenza anche in termini di produttività.
Da oltre 15 anni tuteliamo aziende ed imprenditori nella corretta ed equilibrata gestione dei rapporti di lavoro.