Un detto molto conosciuto – e altrettanto dibattuto – recita che i soldi non facciano la felicità, e in qualche maniera è una buona rappresentazione dello stato dell’arte nel mondo del lavoro odierno. Dove, accanto al valore incontestabile della retribuzione, si è fatto sempre più largo il concetto dell’equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa. Tanto che più di un’azienda farebbe bene a rivalutare la propria cultura organizzativa per evitare di trovarsi nelle condizioni di affrontare una carenza di competenze (“skill shortage”, dicono i più esterofili) dovuta ad abbandoni imprevisti o a mancanza di attrattività sul mercato del lavoro.
Un’analisi condotta su 100mila lavoratori, pubblicata qualche tempo fa sulla rivista Harvard Business Review, già confermava come i collaboratori, piuttosto che spendere più tempo nell’ottica di guadagnare più denaro, avessero ben chiaro il valore di guadagnare più tempo libero, pur dovendoci rimettere qualcosa in termini economici. Con il tempo dunque, più del denaro, che andava affermandosi come valore principale per il lavoratore moderno. Proprio i lavoratori che affermavano di avere meno tempo a disposizione, infatti, denunciavano più alti livelli di stress, ansia, depressione, con conseguente diminuzione dei livelli di produttività sul lavoro. Nella ricerca stessa si esortava, per migliorare il benessere lavorativo, a concentrarsi sul fare scelte basate sul tempo, non sul denaro.
Venendo ai dati relativi alla situazione italiana, ecco la conferma dell’ormai avvenuto cambio di mentalità. L’annuale Randstad WorkMonitor, utile a monitorare l’atteggiamento dei lavoratori verso il lavoro e le trasformazioni che il mercato del lavoro richiede, certifica come il reddito e l’equilibrio tra lavoro e vita privata abbiano sostanzialmente lo stesso peso. Il 95% dei lavoratori interpellati conferma, infatti, come la retribuzione e l’equilibrio tra vita privata e lavorativa siano gli aspetti principali del rapporto di lavoro in termini di importanza. Un dato da approfondire, rispetto al quale vale la pena fare qualche riflessione supplementare.
Intanto, per il 17% del campione il lavoro attuale non permette alcun tipo di equilibrio, e particolarmente per ciò che riguarda le generazioni più giovani questo aspetto è diventato dirimente nella scelta di abbandono del posto. Il 51% degli under 34 lascerebbe un lavoro che impedisse di godersi la vita, mentre il 36% del campione generale conferma di aver lasciato il lavoro perché non si adattava alla vita personale. E in un ipotetico discorso con un career coach, per il 34% dei lavoratori questo sarebbe il tema principale da esaminare.
Ancora una volta emerge come la flessibilità rappresenti un’esigenza irrinunciabile, che può far pendere da una o dall’altra parte l’ago della bilancia. L’83% dei lavoratori riconosce l’importanza di un orario di lavoro flessibile, mentre solo il 50% delle aziende che li impiegano offre una tale opportunità. Il 70% riconosce l’importanza della flessibilità sui luoghi dove espletare il lavoro, mentre solo il 40% dei luoghi di lavoro attuali offrono agli stessi la possibilità di stabilire dove lavorare. E, soprattutto per le generazioni più giovani, questi sono ad esempio entrambi motivi importanti per non accettare un lavoro.
Colmare le differenze che questi numeri ben testimoniano significa andare incontro alle nuove priorità delle Risorse Umane e assicurarsi dipendenti motivati e in un buon equilibrio psico-fisico. Tutto ciò significa intervenire sul modello organizzativo, prendendo in considerazione anche le esigenze specifiche delle singole realtà che operano all’interno dell’azienda (basti pensare a tale proposito a quanta importanza possa avere la flessibilità per le collaboratrici donne, 5 punti percentuali sopra quella dei colleghi uomini). Il ritorno per l’azienda non sarà limitato alla – pur importante – sfera psicologica dei suoi collaboratori, ma si vedrà in ben più tangibili segnali sia alla voce produttività che a quella relativa all’attrattività sul mercato del lavoro.
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